SPIRAGLI DI BUIO
Universo
di Crypt Marauders Cronicles
4. SIA TACIUTO IL SUO NOME
"Un sorso
d'acqua per un assetato, Effendi. E
già che ci sei, passami una di quelle gualdrappe che la notte mi si gelano i
coglioni!" "Per me possono pure cascarti. Tiamat mi paga per la tua
testa, non per le tue dubbie virtù" L'unica pecca della magistrale caccia
del Veltro era quella di non aver imbavagliato Mantera. Il fuorilegge possedeva
un naturale talento oratorio, un autentico trapano di logorrea. Il fatto è che
non si limitava a cantare, inveire o sproloquiare. A causa sua, Veltro aveva
corso il rischio di ingaggiare un alterco con quattro vangafosse incrociati a
sud del Passo Scintillante. "Aiutatemi, germani! Sono un ladro come voi,
caduto nell'imboscata di questo diabolista rinnegato!" aveva implorato il
lestofante dentro la sua gabbia. Il clamore della mattanza di Tananai si
sarebbe di certo divulgato ai quattro venti, ma era troppo presto perché tutti
sapessero della sua scomunica. In nome del Patto di Torcia, le teste calde e le
zucche vuote potevano commettere qualche avventatezza ... Per fortuna gli
errabondi avevano letto la schietta efferatezza nei lineamenti del Veltro, e
preferito non immischiarsi. "Figlio di mille ghoul, testicolo putrefatto,
oca morta! Nemmeno immagini in che pesca sei andato a cacciarti ..." Ora
Mantera declinava il suo mantra di minacce. Veltro si era attendato in una
pietraia frastagliata da ampi canaloni, alle falde di un'amba incrostata di
ruderi simili a teschi fossilizzati. Era la seconda notte nel deserto. Il
viaggio procedeva a rilento. Dopo l'incidente sfiorato coi tombaroli una
subdola paranoia aveva infettato il giudizio del Veltro che, a costo di
trasgredire ai dettami di Skrotos e del Coma'ante, aveva leggermente deviato
dal tracciato canonico. Giusto un rivolo, quel tanto che bastava per non
perdere d'occhio le Piste e contemporaneamente non orbitare attenzioni
sgradite. "Privarmi dei miei servi è stato il tuo ultimo errore"
rincarò la dose Mantera. Malgrado la persistente molestia, in fondo il Veltro
era contento di non avergli mozzato la lingua. Le sue litanie rendevano le notti
dell'Ordog meno lugubri e spettrali. "Non mi sembravano starti così a
cuore mentre te la svignavi" lo assecondò Veltro "Horla era stupido
come un muggito! Io parlavo di Racne ... che gran spreco di fregna! Quella
troia sciroccata sapeva fare più giochi con un glande che un illusionista con
un mazzo di carte! E hai visto come menava ..." "E' per questo che
l'hai rubata a Tiamat, insieme alla grana?" "Tiamat è un puttana
manipolatrice, una sadica! Non hai idea a che genere di depravazioni
sottoponeva Racne. Se ti fidi di lei sei già morto! Quando mi avrai consegnato,
ti farà scuoiare come un ariete nel retro del Berlicche Bislacco!"
"In realtà, ci ha già provato ..." mormorò Veltro affilando la spada.
Mantera mutò ancora tono, come un serpente cambia la pelle. "Sai che
nell'ultima trattativa le ho scucito un bel bottino, no? Quel gruzzolo lo
tenevo da parte per la mia fuga a occidente. Ma adesso è tuo! Sei un cacciatore
di taglie, un compenso per una vita. La mia. A
te cosa cambia? E’ facile, sta in un nascondiglio ad un giorno da qui.
Poi, chi s'è visto s'è visto!" Veltro ripose Sentenza e si grattò il mento
spinato da tre giorni di barba. Gli occhi riverberavano pensosi allo
scoppiettio della brace. "Sai, è la prima volta che un ricercato mi
alletta con un'offerta del genere!
Ventimila lune per un polpo già nella rete, o una deviazione per una
meta ignota, verso un tesoro che forse non esiste, tra le mille insidie di un
deserto stregato ... almeno mi concedi la notte per sciogliere il
dilemma?" "Lurido caprone, verme di catacomba! Prima o poi riuscirò a
liberarmi da questa stia per pavoni, e allora piangerei l'istante in cui hai
messo piede in Thanatolia!" Veltro si abbassò la tesa del cappellaccio,
puntellandosi sulla scomoda stuoia. "Il problema è che i tuoi poi stanno finendo, Mantera"
Raggiornava, sulle dune. Un
albore grigiospento e pulviscolare come l'universo di sabbie obliate dagli dei.
La solitudine immutabile del panorama rivaleggiava in piattume con la diafana
radiazione del mattino. Era come se le luci del sole, della luna e degli altri
corpi celesti si fossero coalizzate in un amalgama corrusco simile a una
perpetua alba crepuscolare. Veltro, indurito da anni di guerre e caccie
spietate, non era un tipo proclive al nervosismo né uno facilmente impressionabile.
Il suo sangue era refrattario agli sbalzi di temperatura. Cionondimeno quel
giorno si sentiva oppresso fin nei precordi da assurde premonizioni, forse
suggellate da sogni vaghi di cui rammentava trame nebulose. Digiuno, si era
messo in marcia con un ingiustificabile e snervante accoramento. A ogni respiro
nutriva la surreale sensazione che l'aere o la terra si sarebbero squarciati
per figliare qualcosa di abominevole in agguato al di là degli spazi visibili.
Era un presentimento atroce, che lo rendeva particolarmente insofferente ai
vaniloqui del prigioniero. Un bubbolio all'orizzonte precorse un'insolita
raffica di hadramaut. "Aria di tempesta" commentò sardonico Mantera.
Veltro si strinse la cappa sulle spalle, infreddolito da un gelo più psichico
che fisico. Le insorgenze antidiluviane del Tormenghast, e l'Erebo di caverne
occultate nelle loro viscere, incombevano paurosamente come ciclopi saprofagi.
Qualcuno spense il lume a ponente, e la luce diurna si fece ancora più avara. Il
ghibli thanatolico ora portava un pungente fetore di tomba, che impastava il
palato di un sapore ferrigno e nauseante. "Le polveri degli Antichi!"
si sganasciò Mantera "Che retrogusto hanno, Penumbro?" L'altopiano,
di punto in bianco, risonò di una salva di tuoni raccapriccianti analoghi ai
borborigmi di un Behemoth ingordo. Il turbine si sollevò dal Deserto delle
Ceneri, librandosi in una torre babelica come un jinn sfuggito dal corindone. In
un serrar di palpebra prolassò in una rugginosa e incommensurabile massicciata
di sabbia, tefriti e fuliggine, un fronte di forze immiti che avanzava e
digeriva a velocità sconcertanti il pianoro di carbonio. Il sole sullo sfondo
era un'orbita livida di sangue disseccato. Veltro realizzò che senza un
immediato riparo erano bell'e spacciati. Lungo le Piste i pionieri avevano
disposto rifugi d'emergenza per calamità simili, ma considerato il bordo
d'avanzamento della tempesta era una chimera auspicare di raggiungerli per
tempo. Non rimaneva che spingersi ancora più all'interno, nella speranza di
incappare in ridosso anfrattuoso dove imbucarsi e aspettare che gli elementi
sfuriassero la loro collera primordiale. Almeno le ubbie irrazionali
acquistavano una dimensione pratica. Veltro speronò l'adipe papilloso del
dromwar, lanciandolo in accelerazione su un'erta accidentata. I mozzi del
rimorchio gemevano sui ciottoli aguzzi, incrinandosi vertiginosamente su
crepacci improvvisi. I tiranti si allungavano come tendini prossimi al
distacco. Nella gabbia beccheggiante Mantera sembrava invasato. "Andiamo soli, da bravi fessi, giù nelle
cripte ..." stonava a squarciagola, circonfuso dall'ululato d'ozono
dell'apocalisse in arrivo. Un manrovescio di hadramaut mefitico per un soffio
non scippò la cappa di Veltro, che infieriva sulla cotenna zigrinata del povero
sauro schiumante. L'impervio ciglione sgomitò verso una facciata crivellata di
trafori e rientranze. Il buscherio dei tuoni li tallonava come l'avanguardia di
una coorte di diavoli. Al volgere del crinale il dromwar stirò le zampe. Un rantolo
penoso, simile a un raglio subacqueo, e l'ammasso grinzoso si accartocciò nella
sassaia lasciandoli a piedi. Veltro assaporò il travaso di bile. Mantera rideva
a crepapelle, la faccia incastonata tra le sbarre come un'emorroide tra due
chiappe: "Tiamat deve avertela tirata, socio! Due piccioni con nessuna
fava! Uh Uh Uh!" L'ira obnubilò il Veltro. Con un gesto fulmineo inserì il
braccio nella gabbia, sorprendendo lo stesso ladro che provò vanamente ad
azzannarglielo, ed iniziò ad acciaccargli il grugno contro le inferriate. Cessò
solo quando ebbe sentito rompersi abbastanza componenti, e l'incendio verboso
di Mantera fu spento. Poi Veltro aprì la gabbia, scaricò l'ingombro sulla
ghiaia e lo riempì di altri calci nel culo e sulle vertebre. Lo sfogo gli dava
una viscerale soddisfazione. Veltro avrebbe continuato fino a farne un
vegetale, se la tempesta non fosse ormai a pochi tiri d'arco. Dunque,
bestemmiando inusitatamente, Veltro attorniò i polpacci dell'assassino con il
nodo scorsoio di una fune e trainò la sua taglia ai calanchi sforacchiati. Il
turbine si infranse sulle pendici dei massicci con l'impeto di un cavallone
contro una scogliera. Veltro si infilò nell'arco curiosamente circolare della
prima fenditura, e pochi istanti dopo un geyser di ceneri veloci come
proiettili e strali di fossili polverizzati deflagrò dall'imboccatura. Tritume
di cripta e crematorio intasò i bronchi di Veltro, asfissiandolo come il
sudario mefitico di un nachzerher. Tossì fino a nebulizzare sangue, e sciupò
mezza borraccia per rintuzzare l'asma. Fuori, il vento mugghiava come un
minotauro deluso dal mancato sacrificio. Veltro appurò che Mantera respirasse
ancora. Un russare costante, arrochito dal setto maciullato, glielo confermò. Era
l'unica nota lieta dello spartito. Si trovavano nell'occhio di una bufera thanatolica,
a due giorni di cavallo dal Guado ma senza cavallo, nel seno di una spelonca
buia e puzzolente. La sua logica, di nuovo padrona, gli ingiunse di perlustrare
l'ambiente circostante. Frugata la sacca, zolfone e candelotto sfrigolarono nel tunnel una luce
apatica. Veltro ebbe nuovamente l'impressione della sinistra artificialità
della volta arcuata, come se a scavarla nell'epa del monte non fosse stata la
geologia ma un'ignota coscienza anteriore. La ruggine ossea della tempesta non
aveva coperto del tutto un rebus di orme bizzarre e recenti impresse nel suolo
argilloso. Veltro avviluppò il ladro nella fune, e pistola alla mano si insinuò
nel budello. Il tanfo di putrido sembrava acuirsi. Un sentore più umido, più di
carcassa che di mummia stagionata. Forse era la tana di una moffetta o di una
manticora. oppure era l'inquilino della cava la scaturigine di quella
pestilenza ... D'un tratto il passaggio si ampliò in uno spazioso ridotto, e la
brace della teda manifestò l'inesplicabile. In fondo al cul-de-sac sorgeva una porta. Non una porta di legno borchiato, o
di grate ossidate, ma la lastra discoidale di uno sconosciuto metallo lucente,
scuro come ossidiana. Di certo non erano state le alchimie naturali a forgiarla
... Veltro avanzò cautamente. Accanto al portale, nella scabra roccia
paleozoica, risaltava un rombo del medesimo metallo, effigiato da un alveare di
paleogrammi irriducibili ad alcun alfabeto familiare. Veltro avvicinò la mano
alla cornice ed i glifi si animarono di un ambrato bagliore turchino.
Ritirandola, baluginavano fino ad annerirsi come astri defunti. Sedotto dalla
scoperta, Veltro non badò all'osceno fetore, adesso quasi tangibile, né
all'ombra immonda che si distaccò dalle altre che popolavano la volta. I
collaudati automatismi del suo mesencefalo scattarono una frazione in ritardo,
il tempo di cogliere una sagoma clownescamente bestiale stagliarsi su di lui. Una
mazzata alla tempia lo disarticolò dalla realtà.
eoni dopo, Veltro riemerse dal
nero per trovarsi nel marrone. Era nudo, intontito e ammanettato ad una
superficie pinacoide fredda come vetro. Gli occhi bruciavano come se galleggiassero
nella calce viva. Il senso di disorientamento era sopraffacente. Anche Mantera,
inchiodato al tavolo attiguo come una rana da laboratorio, non aveva una bella
cera. Dal profilo tumefatto gli saliva un sibilo apoplettico, e la pelle
solcata da antiche feritacce appariva clorotica alla radiosità verdebionda dei
lampadari scevri di fiamme. Un odore di marcescenza e miasmi acidi
neutralizzava la volontà, e Veltro dovette sudare freddo per instaurare una parvenza
di autocontrollo. L'ambiente che mise a fuoco era alieno quanto blasfemo. Una
camera dal soffitto basso e tortile, sostenuto da colonne dello stesso metallo
lustro del portale, che si aprivano su anditi tenebrosi. Oltre ai loro contò
sei altari vuoti, più simili a banchi mortuari in realtà, puntati come falangi
verso una teoria di sarcofagi di un cristallo patinato simile a tormalina. Sembravano
tutti sgombri tranne uno, forse, paludato dalla grama penombra. Grappoli di
cavi bizzarri e gommosi dipartivano dai cofani ramati e si inserivano nel
lastricato metallico delle pareti. Codeste grondavano stigmi dalle geometrie
allucinanti, incomparabili a qualsiasi cifra estetica e su cui era salubre non
soffermarsi. La palma del macabro però andava ad un mobile d'angolo, simile ad
un osceno trumeau di lacerti tassidermici e scheletraglia saldata a una
stravagante ferramenta di placche e chiavarde. L’aria putibonda dell'antro era
pervasa da un ronzio malefico e angoscioso, impossibile da localizzare.
"Dove cazzo siamo?" blaterò raucamente Mantera. Domanda scontata, ma
a cui il Veltro non osò rispondere. Le ipotesi erano così atroci da far
rimpiangere il deliquio del coma. "Ehi, li senti anche tu?" "Già"
Passi sovrapposti in arrivo dal buio, che l'udito assoluto del Veltro attribuì
a due distinti proprietari. Uno lieve e regolare, l'altro malfermo e
strascicato. "Mantera, se hai mai avuto una coscienza ti suggerisco di
pentirti ora" disse Veltro lapidario "Bah" Mantera sputò sulla
colata di porfido del pavimento "Il mio unico rimorso è non poterti
accoppare di persona" Il cinismo del ladro anticipò la comparsa dei loro
sequestratori. Veltro torse il collo per squadrarli meglio. Un incappucciato
esile e misterioso sostò all'ombra dei pilastri. Da essa si scollò una larva
d'uomo, di gran lunga più malridotta dei prigionieri inchiodati ai tavoli. Uno
sbricio pianeta intriso di umori inqualificabili incellofanava una corporatura
magra al di là del concetto di consunzione. C'era solo una pellicola di pelle
color pergamena sul suo teschio angoloso, deformato da una smorfia di depravato
compiacimento. Un arcano artefatto di luci ondivaghe come fuochi fatui gli
premeva il torace macilento, agganciato a una collana di denti umani. Il
fattucchiere claudicò fino al cuore della camera, e puntò l'artefatto verso
l'orripilante collage di organi e metalli. Una scarica di energia bluastra
guizzò come una lingua biforcuta da un piccolo pomello alla sua sommità, e gli
aborti di gambe che Veltro aveva scambiato per appoggi si mossero con lo
scricchiolio di articolazioni anchilosate. Gli stipetti e i portellini si
schiusero docilmente ad un comando del mago, rivelando un foderame di legamenti
necrotici e costole disincarnate dove alloggiavano spaventosi attrezzi cerusici.
"La vera Scienza" mormorò il negromante. Le pupille nere come carboni
erano accese di un’ esaltazione messianica.
"Ehi, paesano, ma io ti conosco!" Gli occhi del maniaco saltarono
alle spoglie nude di Mantera. "Sei Vool'mag lo stregone della masnada di
Nan Drol! Ora ti riconosco! Perdona la franchezza, ma ho visto spaventapasseri
più in forma di te!" Vool'mag impegnò le grinfie ossute con un bisturi dal
filo micidiale e un corto alambicco, e zoppicò verso gli altari. La sua aura
raggelante sembrava estinguere il calore della carne. Il cuore del Veltro si
incagliò . "Non puoi averlo scordato, vi ho fatto da guida al Famedio
Franto lo scorso alcione. Siamo fratelli in Torcia, vecchio mio!" lo
impetrò Mantera, il tono spezzato "Io non c'entro! Scioglimi dalle manette
e ti aiuto a scuoiare questo tradi ... aaargh" La lama slabbrò
l'avambraccio del ladro, ed il sangue filtrò nella provetta tra le urla
rabbiose di Mantera. "io non sono più Vool'mag, pezzo di carne, e tu non
sei altro che una cavia" chiarì il negromante. La sua voce sepolcrale
racchiudeva un intero mondo di pagana perversione. Vool'mag manipolò la
reliquia lampeggiante e l'empio carrello di carcame e ferraglia lo raggiunse
ciondolando. Veltro adocchiò la seconda figura venire allo scoperto, e
scivolare silenziosamente accanto al suo altare. Era una donna, o almeno ne
aveva le credenziali. A nord dei lombi
portava un saio grigio che le fasciava i connotati, tagliato all'altezza del
pube. Malgrado le circostanze Veltro non poté esimersi dall'apprezzare la linea
morbida delle cosce color caffè. La strana monaca si rifornì dai turpi vassoi e
meccanicamente prese ad emulare i gesti dello stregone. Veltro non oppose
resistenza, a differenza di Mantera che si contorceva come un luccio sbuzzato.
"Non lo sono più da quando il Necrolorum, il trattato di chirurgia
infernale, mi ha guidato in questo laboratorio" continuò Vool'mag,
scambiando il campione di sangue con dei vetrini e un lungo uncino "Era un
laboratorio dei Coeterni, lo immaginate? Ce ne sono altri, nelle gallerie del
Tormenghast. Li costruirono prima che la Regina - sia Taciuto il suo Nome -
fosse bandita dalla sfera materiale, quando l'umanità era ancora fango sotto la
notte illune" Veltro seguì i polpastrelli della sconosciuta corrergli
lungo il corpo, un tocco quasi premuroso, mentre asportava campioni di saliva,
di muco, di cerume. "Per i Coeterni la vita e la morte erano giusto
parametri, variabili di equazioni che oggi surclasserebbero la più ardita
blasfemia! Allora i negromanti non erano avventurieri da strapazzo, ma teurghi
dai poteri ultraterreni, lo strumento di Entità più antiche del tempo e dello
spazio ..." Le quattro ossa di Vool'mag tremavano incontrollabilmente,
intossicate dal tetano di scibili oltremondani "Io vi guardo e vedo solo
insulsa putrefazione. Cos'è la vita come viene intesa, se non una schiavitù del
caduco, una prosopopea della materia? I vostri secreti serviranno per uno scopo
più nobile, il rituale del Nganga, la pozione che donerà la non-morte alla
vostra carne. Così è stato per Nan Drol e i suoi tirapiedi, le mie prime cavie,
e per le altre che la provvidenza ha menato sin qui ..." Veltro scrutò con
maggior studio la suora. C'era qualcosa di misteriosamente familiare nelle sue
fattezze ... "Vuoi farmi un dono, avanzo di cripta? Passami uno di quei
castraporci e curerò il tuo problema" ringhiò Mantera "Ehi, allontana
quel cavatappi dal mio tafanario! Ma cosa... non pensarci neanche, invertito
del cazzo!" "Ogni fluido va spremuto, lo dice il Necrolorum. Farà più
male se ti dibatti ..." Le dita
affusolate dell'assistente cinsero senza preavviso il mollusco tra le gambe del
Veltro. Almeno la giustizia non è del
tutto morta in quest’obitorio, pensò agramente. "Lascia perdere,
zucchero" le consigliò Veltro "Non è proprio aria". La concavità
avvolgente della ragazza non si diede per vinta e, seppur con la morte nel cuore,
qualcosa nei bassifondi del Veltro cominciò a palpitare. "Non sei tenuta a
farlo" le sussurrò sforzandosi di non assecondare la ritmica della mano.
Nemmeno le strilla suine di Mantera riuscivano a smorzarlo. Veltro si focalizzò
sul volto della giovane. Il cappuccio si era scostato, e una lacrima le rigava
l'onda modellata dello zigomo, luccicando sull'ambone del neo a coccinella che
le decorava la gota. "Sei tu!" mugolò il Veltro "Al Guado! Avevo
intagliato quella pietra.. per ..te..." Veltro provò un'umiliazione
avvilente mentre la zingara ultimava l'ingrato compito con asettica
automaticità, e deponeva la fiala in un compartimento del nefando vitruviano.
Era tutto così assurdo ... Anche Vool'Mag aveva concluso i suoi prelievi, per
buona pace di Mantera, e ristava nelle vesti inzaccherate al centro del
laboratorio. L’assistente chinò il capo e lo imitò con oppiata inebetudine. Mantera
latrò l'ennesima, vacua minaccia. "Sursum corda, miei catecumeni! Tra poco
verrete mondati dalla mortificazione della vita, ed otterrete il privilegio
immortale di servire la Regina, sia Taciuto il suo Nome!" Veltro sentì la
voragine lasciata dalla speranza affossargli l'animo. Il necromante attivò le
energie corruttive del suo collare e un alone di fuoco spettrale azzurrò uno
dei sarcofagi di cristallo. Il ronzio onnipresente sembrò alzarsi di un'ottava.
La schiena del Veltro si orripilò. Con un fischiante getto nebbioso una cosa
uscì dal cubicolo, e quando la cortina si fu dissipata i due prigionieri non
trattennero un acuto di insopprimibile terrore. "il Caos" disse Vool'Mag "il vostro
futuro"