SPIRAGLI DI BUIO
Universo
di Crypt Marauders Chronicles
1. MOVESI IL VELTRO
Quando il suo sguardo
onnicomprensivo catturò un volteggiare di ali nere contro il cristallo del
cielo, il Veltro capì che l'ozio era finito. Con insospettato rammarico ripose
le cesoie nella gerla, e sotto il baldacchino dei pampini calcò il sentiero che
dalla vigna risaliva al vetusto mulino. Il mezzogiorno era torrido, malgrado
l'estate boccheggiasse sul greto dell'equinozio. Zolfo sonnecchiava regale come
un idolo d'ambra nello spicchio di fresco dell'aia. Dentro casa i Vitruviani
sbrigavano le ordinarie faccende per le quali erano stati assemblati, al ritmo
indefettibile dei loro ingranaggi di rame. Veltro pestò i pioli malfermi del
torciglio di scalini e salì in piccionaia. Quassù la polvere ingrigiva ogni
cosa, tranne le piume d'ebano della nocciolaia che gracchiava impaziente sul
cornicione. "Benvenuto, mio buon postino!" Veltro gli strusciò il
becco a pugnale, appropriandosi del rotolo di carta annodato alla zampa. Ecco un altro contadino che semina per il
mietitore, rifletté serafico erudendosi sul contenuto del messaggio. Un climax
di interesse e meraviglia gli corrugò l’austero cipiglio. Come supposto si
trattava di un'offerta di lavoro, quella che i sicari di mestiere definiscono
gergalmente “condotta”. Il fatto anomalo è che l'araldica e l'identità del
mandatario gli erano del tutto estranei: una specie di piovra ottopode, con le
suggestioni del rospo e del drago, controfirmato in calce da un certo Tiamat
Aurotene ... Per non parlare delle coordinate dell'appuntamento! Taverna del Berlicche Bislacco, Port Tijaratur,
Thanatolia. Thanatolia … il reame dei morti! Sul pianeta non esisteva meta
più esotica e favolosa per un cacciatore di taglie! Nel corso delle generazioni
l’ago della suggestione e il filo dell’arcano avevano ricamato attorno a quel
nome un’aneddotica avventurosa quanto sinistra. Al fuoco diaccio dei bivacchi,
e dopo un paio di passaggi di fiasca, i veterani alludevano spesso a quel
sepolcreto di cimeli preistorici con un misto di cupidigia e venerando timore.
Tutt’oggi il suo fascino obliquo e nebulare calamitava guerrieri, ladri e
occultisti da ogni angolo dei tre Continenti come un magnete attrae la limatura
di ferro. Molti partivano, pochi tornavano. Così il reame dei morti poteva
eternare le sue agghiaccianti leggende, e le sue conturbanti lusinghe.
Osservando il pennuto svolazzare verso sud, il Veltro avvertì il sapore
irrazionale del pericolo allegargli le gengive. Ma non ingannò se stesso con romanticismi
da avventuriero: se accettava l'investitura era per il guiderdone. Il più
generoso della sua prezzolata carriera. Un tocco più tardi stava già in arcione
di Anemone, l'equipaggiamento assicurato alla sella. Non lasciò istruzioni ai
domestici poiché si trattava di costrutti di ferro e di ottone, i cui
meccanismi avrebbero seguitato a rispettare le consegne programmate senza bisogno
di ingiunzioni. Gli artigli di Zolfo avrebbero tenuto alla larga sorci ed
intrusi. Prima di sciogliere le briglie Veltro contemplò il vecchio mulino e l’acro
di vigneto, che digradava in un’argenteria di olivi e di mirti a picco su una
cala di onde color cedro. Contava di rientrare per la luna nuova, quando dall’uva
si sarebbe spremuto il mosto del primo tuschero, e con abbastanza risparmi in
tasca da dedicarsi per sempre alla viticoltura.
La galoppata fu corroborante,
al riparo del sottobosco fragrante tra dossi macchiettati d’armenti in
transumanza. L'oceano cromava l'est, con la perseveranza degli esseri
immortali. Veltro moderò il trotto
quando vide un pennacchio di fumo librarsi da un noceto ai bordi della
mulattiera. Soldatino lo accolse con il rustico calore dello scudiero.
"Quanta biada, stavolta?" "Più del solito, vecchio mio. Ho idea
che non sarà un'escursione fuori porta ..." Veltro non aggiunse altro, e
Soldatino non domandò oltre scortando la giumenta nel conforto delle stalle.
Veltro si predispose ad entrare in città senza dare nell'occhio. Indossò un petaso
frusto e si intabarrò in una cappa, sotto cui nascose la scarsella e la spada
smontabile. Gli stivali impolverati erano abbastanza capienti da occultare
ambedue le pistole. Veltro abbandonò la boscaglia, e si attardò sulla strada
maestra che scendeva a Rosavena. I masti e le torri apparivano struggenti a quell’ora
del meriggio, e i propugnacoli eburnei riflettevano le dorature cremisi del
sole in declino. Le ombre dei contrafforti si allungavano come ali di corvo sul
viandante, che affrettò il passo. Il crepuscolo urgeva. Dagli spalti strapiombavano gli stendardi
gigliati dell’Autoritas, e nelle bertesche lumeggiavano le lanterne e gli
archibugi del corpo di guardia che si apparecchiava alla ronda notturna.
Nessuno alla porta badò al tiratardi appiedato e male in arnese. Era l'ora in
cui i signori si asserravano nei loro monumentali palazzi, e le arti e il volgo
valutavano se passare la notte nel talamo o nel giaciglio di qualche bordello. Il
bagliore aranciato delle lumiere guidò Veltro al Cantinon de' Pazzi, una
bettola congeniale alle sue esigenze: desco commestibile, biancheria di bucato
e l'usanza a bruciarsi ognuno i propri pidocchi. L'indomani si alzò alla
buon'ora, in tempo per presenziare all'apertura del Gran Tavolo dei Crediti e
impegnare il primo addetto al banco. "Esatto, Voscenza. La scorsa ebdomada
sono state accreditate duemila lune sul conto a voi intestato" confermò il
compunto cambiavalute dai boccoli posticci. Veltro fischiò mentalmente. Per
consuetudine, il contratto da sicario prevedeva il versamento anticipato di un
quinto della taglia complessiva. Qualunque fossero le sue losche trame, il thanatolico
faceva sul serio: in Penumbria, una luna
equivaleva al salario mensile di un tessitore ... Veltro prelevò il necessario
per il viaggio, e traversò Rosavena da poco ridesta in direzione del porto. I
Terzi fervevano. Erano i giorni che precedono l'Arpasto, e Piazza del Palio era
deserta e intonsa come un santuario in attesa del catartico lavacro di sangue e
ossa ammaccate. Veltro ammirò nell'olimpo del giorno il profilo di platino dell’Arengarium,
la severa roccaforte in travertino dell'Autoritas addossata al cassero
settentrionale. Sulla riva opposta dell'Orna si stagliava la trista bomboniera
del Nefasterio, giudecca dei sediziosi e dei mestatori. Le mura invalicabili
del carcere politico erano infradiciate dalle pitture infamanti dei fuoriusciti
condannati in contumacia. La sua era stata abrasa molto tempo fa. Ponte dei
Portici lo addentrò nel Terzo dei Mirabilia, dove fu accolto dallo stuporoso
clamore delle magone e dei gabinetti degli inventori. Dagli antri che
sbadigliavano sulle calli affollate filtrava il concerto stridente di mantici e
sifoni che insufflavano vita automatica ai servomeccanismi cigolanti e alle dinamo
ronzanti, alimentate dal propellente di fornaci sputafiamme. E ancora,
nell'atanor prodigioso, colse il riflesso corrusco di specchiere semoventi e
clessidre eteroclite sommerse dal brusio infernale di ectopici congegni di
dischi e sfere misteriosamente levitanti.
Vitruviani umanoidi e zoomorfi si aggiravano tra quegli strambi meandri al
tempo vagamente epilettico delle loro anatomie artificiali, mentre la calca era
fesa dall'apparizione di grotteschi celeriferi e da trampolieri che stantuffavano
su schinieri di molle sbuffanti. Alle porte di un edificio dai tratti barocchi una
vasca a guscio di noce provvista di ali coriacee e un'enorme coda falcata
tentava di sollevarsi dal suolo in dispregio alle leggi di gravità. "Più
pressione in quei tubi!" esortava l'ingegnere all'assistente, un fantino
paonazzo dai googles antipolvere intento a pedalare e a orientare il pesante
manubrio a balestra. L’effigie sul frontone dello stabile, il compasso tra
un'ombra di sole e una mezzaluna, rivelò al Veltro che si trattava
dell'officina di ser Galileo Ottocingoli, scienziato, alchimista e vecchio
socio d'armi e scorribande. Quel genio visionario e balordo alla fine aveva
fatto strada! La sua barba filosofale e il mazzocchio a pois latitavano però
dalla scena, così Veltro proseguì verso la darsena in cerca di un legno diretto
a Port Tijaratur. I velieri traccheggiavano alla fonda. "I sciarebbe la
Ruza Vietor, ma face tappa a Lampusia. Sta scialpando mò mò" disse in
argot un portolano adusto come fegato essiccato. La buona stella arrideva al
Veltro. A bordo c'era ancora posto per un passeggero senza cavalcatura, e Veltro
contrattò col primo ufficiale per una cabina appartata. Le amache comuni dei
bastimenti erano il posto ideale per buscarsi la scabbia o una pugnalata. La Ruza, un’agile cocca tuxiana a vele
quadre, salpò con gli alisei in poppa. Navigò proficuamente per due giorni e
una notte, compiendo un rapido scalo di cabotaggio in un porticciolo riparato,
dove scaricò tessuti e imbarcò barili d'acqua e derrate. Come predetto dal
segaligno alturiere la seconda sera il vasello ormeggiò nell’ampio golfo di
Lampusia, l'ultimo atollo civilizzato del Magnum Vacuum che separava la
Penumbria dal Continente dei Morti. Veltro snobbò i lupanari dei fondachi e
pernottò in cabina, disturbato dal ciclico saettare del titanico faro di bronzo
a forma di testa di gorgone che era il prisco emblema dell'isola. L'alba
seguente la Ruza infornò un nuovo
carico di avventurieri e mercatanti dall'aria quantomeno picaresca, e fece
rotta a vele spiegate per Port Tijaratur. La navigazione durò tre giorni. Il
Veltro trascorse la maggioranza del tempo sottocoperta, in cabina, a oliare i
tamburi della Knaak e della monocolpo e ad affilare l'acciaio temperato della
sua lama, Sentenza. Compariva sulla tolda solo quando albeggiava o al primo
vespro, mentre il grosso della ciurma era nel focone a strozzarsi col rancio.
Veltro inalava l’ossigeno salso, osservando le onde infrangersi aggressive
sulla carena e morire in schiuma assorbita dagli ombrinali. Al di là
dell'impavesata le mostruose profondità del mare, nero come vino, serbavano enigmi insondabili. Proprio
come il suo futuro.
Port Tijaratur apparve al
crepuscolo, simile a un relitto incagliato tra scogli aguzzi e vulcanici. La
sua baia era punteggiata da faraglioni subdoli che resero ingrate le manovre di
approdo. Sulle chiassose banchine il Veltro si mischiò guardingo e stupito ad
uno sbalorditivo carosello di personaggi, accenti ed effluvi. I ghetti del
porto erano una sentina cosmopolita e promiscua, la mecca di mercenari, bardi,
stregoni, coribanti, pirati, bracconieri, parafiliaci, disertori e perseguitati
di innumerabili contrade. Nel breve tragitto che lo instradava alle porte,
Veltro si imbatté in ogni risma di vesti e ornamenti conosciuti: gilè
sgargianti e farsetti di velluto, fusciacche variopinte e corazze ammaccate da
mille mischie, morioni e turbanti bicorni, monili di corallo e orecchini di
piume, bracciali artigliati e scudi dai blasoni scoloriti. Raccapezzarsi in un
simile marasma era proibitivo, così fu
costretto ad assecondare le profferte di uno dei tanti imbonitori dai modi
untuosi quanto il vaporoso caffettano. "Porto hascisc papavero anhalonium,
Effendi! Bisca, forse? Donne,
vergini, efebi? Subito!" Affatto impressionato dal compendio di
corruzioni, Veltro menzionò il luogo dell'appuntamento con Tiamat Aurotene.
L'espressione del lenone divenne mercuriale. "Il Berlicche Bislacco ...
No, no, Effendi: sconsigliabile, senza invito" Veltro gli sventolò il messaggio dallo strano
simbolo sotto la lancia del naso. Come ad un segnale convenuto, il thanatolico
accennò un inchino ed evocò ad aspra voce dalla turba un monello che non
toccava sapone dal primo dente. "Una rupia per inizio e una per fine di
trasporto" decretò ridanciano, invitando il Veltro a sistemarsi nel carrello
di un decrepito risciò. Come filava tra le stanghe quel soldo di cacio,
attrezzato di polpacci ipertrofici e piedi talmente callosi da ignorare il
tappeto di lordure che foderava i vicoli di Port Tijaratur! La megalopoli era un
dedalo di angiporti, bazar e presepi equivoci di mendicanti, baldracche e
sciuscià. I suk, perlopiù in paglia e ciottoli cementati col fango, ostentavano
scale esterne e finestrelle buie come orbite di teschi, sorreggendosi a vicenda
come ubriachi all'uscita di un’osteria. Al centro delle strade correva un
rigagnolo fetido di rumenta e liquami, e sui lati si aprivano scorci d'acque
sudicie che si addentravano nel centro dell'abitato come vene reflue verso un
cuore dissoluto. Dopo l'ennesima diramazione il carretto decelerò fino ad
arrestarsi ai margini di una sordida agorà illuminata fiocamente. "Ecco la
samarcanda!" additò brioso il giovinastro, convertendo il segnale nel
palmo concavo che alloggiò la rupia pattuita. Lo scricchiolio delle ruote fu
ingurgitato dalle latebre di vicoli invisibili. Malgrado la caldura tropicale
Veltro si strinse nel mantello, e carezzando l'elsa di Sentenza guadò la
piazzetta solitaria. Un cero cadaverico incorniciava un varco scevro di
insegne. Da uno strato di tende filtrava un tenue fantasma di musica . Veltro quadrò
il suo centro ed entrò.
Affrancata
dai drappeggi, una risacca di suoni e di odori travolse i suoi sensi
illanguiditi. L'interno era inaspettatamente vasto, organizzato in emicicli di
divani fronteggiati da plinti colmi di
gradali e fruttiere. In mezzo alla pista un piccolo harem di baiadere dalle
cavigliere d'osso ancheggiava voluttuosamente al ritmo sincopato dei nafil. Sebbene
i soffusi bracieri relegassero gli avventori nella penombra, Veltro captò su di
se il peso di sguardi sospettosi. Ostentando indifferenza, si mosse nell'aria
affumicata dai narghilè. Scartò una tersicorea
troppo audace, che lo strisciò con uno sguardo licenzioso, ed entrato
nel campo visivo dell'oste ne capitalizzò l'attenzione. Era un quintale di
lardo massiccio nudo fino alla cintola, dalla complessione ginoide e la labbra
lubrificate da qualche unguento. Fingeva di mescere dell'assenzio a due
contrabbandieri barbuti e truci, ma non riusciva a schiodare gli occhi porcini
dai suoi. "Cosa ti ha condotto così in basso, forestiero?" gli
ammiccò porgendogli un cicchetto di liquore narcotico. Il Veltro passò.
"Non sono qui per sbronzarmi. Devo incontrarmi con Tiamat Aurotene. Lo
conosci?" L’eunuco scrollò le spalle glabre, stendendo il collo per
ingollare l'intruglio rifiutato. "Mai sentito" ruttò. La pazienza del
Veltro cominciava a scricchiolare. "Ehi, magari posso aiutarti!" chiocciò
una voce al suo fianco. Veltro ruotò il capo fissando i due bevitori, che lo
ricambiarono di un'occhiata poco amorevole. "Dicevo, se stai cercando Tiamat
forse posso esserti utile" Veltro abbassò la visuale di mezzo busto, e
notò un nanerottolo dalla trabea tigrata allargargli un sorriso accattivante
dal periplo di barba artefatta. Portava un pince-nez di lenti ottagonali
rutilanti che sfaccettavano l'espressione sconcertata del Veltro come un gioco
di specchi distorcenti. "Io sono Grauser. Hai un invito, suppongo"
Veltro annuì, mettendo mano alla tasca.
"Grandioso!" esclamò "Tu saresti il famigerato Veltro, il
miglior spadaccino di Penumbria!" L’interpellato non controbatté
all'ovvio. Grauser lo radiografò per un lungo istante dietro gli assurdi
oculari. "Seguimi" gli ingiunse e prima che potesse ribattere lo
gnomo aggirò il bancone su gambe valghe come zampe caprine, scomparendo in un
passaggio guarnito da un sipario frusciante. "Rallenta, maremma!"
smoccolò il Veltro rincorrendo Grauser nel pertugio. Si ritrovò in un androne
buio attestato su un cavedio chiuso da mura fatiscenti, probabilmente il retro
del Berlicche. Veltro avanzò di qualche passo, calciando inavvertitamente
rivoli di immondizie. Lo sconosciuto interlocutore sembrava essersi fatto
magicamente di nebbia. "Dove fava si è cacciato ..." mormorò Veltro,
ma il disappunto gli morì in gola sopraffatto dall'atavico istinto di sopravvivenza.
La morte, ossuta testarda, sfiorò il Veltro col calante di una scimitarra nera
che recise l'aria dove un istante prima svettava la sua capa. Veltro uscì dalla
schivata, sguainò la spada e vibrò una stoccata al plesso dell’ingombrante apparizione.
La punta incontrò una resistenza imperforabile, e la lama non si spezzò solo in
virtù della sua metallurgia d'avanguardia. L'assassino ruggì di rabbia.
Respinse il Veltro con una stivalata e bilanciò le scapole per menare un micidiale
fendente a due mani. Con l’agilità di una lonza
Veltro gli entrò nella guardia, e affondò due spanne di Sentenza
nell'occhio sinistro. La scimitarra, di colpo insostenibile, rovinò tra i
rifiuti, imitata dall'incauto possessore appena realizzò di essere morto. Ma in
Thanatolia la tregua è merce rara, e una garrota avvinghiò senza preavviso la
sua gola indifesa. Veltro perse la spada, mentre una volontà nerboruta lo
costringeva in una chiazza d'ombra segandogli dolorosamente la trachea. Aveva
pochi secondi prima che l'anossia usurpasse le sue facoltà di giudizio. Le
pistole erano irraggiungibili, e una prova di forza con un maestro strangolatore
era da stolti. Così il Veltro artigliò con il braccio la nuca incappucciata
dell'uccisore, e con l'altro fece scattare la lama protrattile celata nella
manica. Infierì alla cieca, deciso. Il gaglioffo allentò la morsa con un
cachinno d'agonia, seguito da una dura gomitata nel costato. Veltro uscì
dall'angolo. Si controllò il collo, pronto a recitare l'atto conclusivo. Lo
strangolatore, sfregiato, emerse dal buio nell'uniforme di bende mimetiche. Brandiva
un lungo kriss a foggia di biscia. Decaduto l'effetto sorpresa, si avventò come un bufalo impazzito sulla
vittima renitente. Veltro non attendeva altro. Si liberò della cappa con la
fulmineità di un illusionista, irretì il nemico nel suo stesso impeto
offensivo, e adescatolo tra le falde del mantello il Veltro invertì i ruoli.
Con un passo di gagliarda si portò alle sue spalle e gli conficcò lo stiletto
nei polmoni, più e più volte. Gorgogliando gli ultimi sputi di vita, il marrano
tirò le cuoia. Veltro frugò tra le ombre predisponendosi al peggio ma il cortile
appariva tranquillo, ora. Per prima recuperò Sentenza, assicurandosi che nessun
graffio ne scalfisse la letale efficienza. Poi studiò le due salme, badando a
non inquinarsi con l'icore che già ne allagava le forme afflosciate. Scostò i
bendaggi che fasciavano le loro identità, e sotto la luce ossea della luna vide
solo lineamenti levantini e insignificanti di colleghi malcapitati. Veltro non
provò né colpa ne odio, almeno non per loro. In tre furiose falcate raggiunse
l'uscita posteriore, sforbiciando il velario con la sciabola. La sua comparsa
ammutolì i pifferi del Berlicche Bislacco. Viziosi e peripatetiche impietrirono
le ugole e gli ombelichi mentre il Veltro scavalcò il bancone con un balzo
tigresco e levò il filo sporco di sangue alla pappagorgia gelatinosa dell'oste
esterrefatto. "Stura le orecchie, palla di merda!" sbraitò "Non
ho fatto una settimana in una cabina muffosa per finire in qualche fossa
comune... Adesso, o mi dici dove cazzo trovo Aurotene o la prossima cosa che
berranno quei due lestrigoni sarà il tuo colesterolo!" Il bidone balbettò
una frase che ricordava il pigolio di un pollo sul ceppo. Un sincero battimani
si propagò nel silenzio alle sue spalle. Le pupille di ghiaccio del Veltro
traslarono, inquadrando Grauser assiso sul raso zebrato di un triclinio. Una
procace baiadera gli vezzeggiava la barba arzigogolata con le unghie smaltate
di rubini. "Non mi divertivo così dall'ultima rissa di Malqvist!"
Grauser congedò la mignotta con una strizzata al seno giunonico, e si issò
sulle tozze gambe da nano. "Adesso seguimi, Veltro di Penumbria. E’ ora di
fare sul serio"
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