mercoledì 11 gennaio 2017



SPIRAGLI DI BUIO


Universo di Crypt Marauders Chronicles

3.   CACCIATORI E PREDE

 

                                                                 Le Piste Calpeste serpeggiavano sotto un cielo di rame tra panorami di stregata desolazione. Recavano le impronte di migliaia di calzari, di zoccoli e il solco dei rimorchi di incalcolabili spedizioni. Le sabbie ciottolose dell'Ordog, anticamera al Deserto del Ceneri, arrugginivano sotto la muta vedetta di ciclopici menhir ed i moloc di megalitici ruderi diroccati dai millenni. Il fascino scabro delle solitudini desertiche si coniugava a un’impalpabile aura di alienità sovrannaturale, il dimenticatoio ideale per chi intende nascondersi o sparire per sempre dall'orbe civile. Grauser aveva fissato per il Veltro un abboccamento con una spia di Tiamat, senza la quale la caccia sarebbe risultata a dir poco improba. Le zampe artigliate del dromwar tennero la caldeggiata via maestra fino al tramonto, quando quel polveroso monumento all'effimero fu popolato da una mandria di tenebre antracite. Pareva che a pascerle fosse l'hadramaut, il richiamo dei morti, l'arido vento dell'entroterra thanatolico. Sibilava tra i promontori di sabbia e macerie col suo gelo d'ossario, scolpendo le dune come un'entità senziente. Il sole annegò a vista d'occhio oltre la dorsale del bassopiano, e il fuoco di un vicino bivacco riscaldò la mente già suggestionata del viaggiatore. Il quadrupede draconico familiarizzò con un suo consimile, allungando il collo grinzoso, nel ridotto di un marabutto in rovina che i tombaroli usavano come xenodochio. Una figura solinga si riparava tra una bica di detriti e una colonna franta, ingarbugliata in uno strato di vesti frugali. "Appena in tempo!" commentò senza alcun stupore alla comparsa del Veltro "Non è saggio marciare tra le ombre, se sei un vivente..." Skrotos era un ramingo poco loquace, dall'indole pellegrina, legato da un antico e imprecisato debito all'organizzazione di Aurotene. Acuto e smaliziato, conosceva le asperità dell'Ordog come un custode le tombe di un cimitero. Il duca ideale per il Veltro. Cavalcarono ininterrottamente per due giorni fino al Passo delle Ossa Scintillanti. I mattini erano canicolari e siccitosi come le uadi pietrificate che talvolta sottolineavano le piste, le sere un freddo sussurro di misteri dimenticati ma non per questo estinti. Man mano che si addentravano in Thanatolia, le regole astronomiche davano l'idea di ammutinarsi. Il sole collassava a velocità irragionevoli, come per effetto di un numero di prestigio, e i firmamenti erano arcate di uno zodiaco illogico e sconosciuto che sabotava l'orientamento. La terza notte si accamparono in un boschetto di saguari alle pendici del basso Tormenghast. La brace del bivacco a queste longitudini sembrava scaldare poco e illuminare ancor meno. Una cosa ululava nell'oscurità, un urlo lamentoso, agghiacciante, di un bambino sperduto. "Uno sciacallo?" domandò il Veltro, prevedendo un'altra veglia insonne. Skrotos si sbottonò: "Improbabile. Forse uno scorpione mannaro o una mummia derubata. Magari un abominio ancora peggiore ..." Veltro adocchiò i pinnacoli dirupati che davano il nome al Passo poco lontano. Splendevano di un'arcana iridescenza cerulea, che inspiegabilmente non rischiarava la notte, simili a torri falcate o alle zampe di un ragno ribaltato. "Solo uno squilibrato si avventurerebbe tra quelle solitudini" borbottò Veltro tra se. Skrotos intercettò il suo pensiero: "Dove tu vedi un insensato abbandono altri hanno visto e vedranno la vanagloria dell'argento, del potere, della sapienza e, perché no!, della morte fine a se stessa. Forse non la più nobile delle cause, ma la più naturale. In fondo anche tu sei qui per qualcosa ..."  "Io sono qui per lavoro" L'informatore approvò. "Io il mio l'ho finito. Domani supera il Passo e percorri le Piste tenendo i monti alle spalle. Tananai ti accoglierà a fauci aperte ...  Non vedrai mai un covo di malaffare peggiore di quello. E' lì che oggi si annidano Mantera e la sua feccia di esiliati, agli antipodi dell'impero occulto di Tiamat!" "Tu non mi accompagni?" "No, il mio debito termina qui. E poi, se devo crepare, non mi va di avere Mantera per boia. Quell'uomo è uno scarafaggio col cervello di un demonio, matto come un cavallo" Per nulla rassicurato, Veltro svolse il primo quarto di sentinella. L'ululato cresceva e sfiatava. Dove, arduo decifrarlo. Qualcosa di indeterminabile e sinuoso tramestò tra le xerofite, ma non osò venire alla luce, forse intimidito dall'acciaio o dai feticci d'antimonio che Skrotos apprestava attorno al bivacco per scongiurare il malocchio. Nell'ora del lupo, falò ignoti barbagliarono dai picchi preistorici, come in risposta a invisibili segnali celesti All'alba Veltro si rialzò più stanco di quando si era coricato. Skrotos e il suo dromwar se l'erano svignata. Il beduino aveva disposto la partenza nell'illusione che l'orecchio onnisciente di Veltro ne fosse all'oscuro, ma lui lo aveva assecondato volentieri. Detestava gli addii. Skrotos gli aveva lasciato un'agra colazione e alcune delle sculturine apotropaiche. Veltro consumò lo spuntino con mani intirizzite, assistendo all'arrancare dei frusti raggi del sole dai cocuzzoli preumani. La riacquistata solitudine lo metteva stranamente di buon umore. Era così che amava lavorare, quando la preda si profilava all'orizzonte. 

 

                                                                                         Il deserto imbruniva come una padella bruciacchiata, quando Veltro avvistò i fuochi di Tananai. Era un caotico accampamento privo di mura, soverchiato da un'acropoli cadente di sfingi decapitate e mozziconi di propilei sconsacrati, saccheggiati da anni di ogni ricchezza. Il tenore degli  edifici, affastellati senza alcun criterio urbanistico, oscillava tra baracche di assi rozzamente squadrate a veri e propri padiglioni sorretti da travi infisse nel suolo sabbioso. Veltro parcheggiò il dromwar in un enorme recinto suddiviso per specie - gli equini e i camelidi non soffrivano i sauri -, gestito da due gemelli dal collo taurino che indicarono al Veltro le migliori armerie e il saloon. Le prime erano in realtà spacci di ogni classe di merci per avventurieri, dai sacchetti di polvere nera agli amuleti negromantici, passando per le immancabili vanghe da necropoli. Per i terreni sassosi gli esperti suggerivano quelle a lama trapezoidale, col manico in ferro. Veltro finse di mercanteggiare per un kit di scalpelli da cripta e una lanterna schermata, giusto per sondare i paraggi senza alzare troppo il profilo. Le strade sterrate erano un crocevia di ceffi discretamente spaventevoli, marmagliume più aduso al delitto che alla legalità, combinato in maniere tali da dissuadere possibili molestie.  Veltro notò la presenza di una Shurta dalle brigantine di cuoio scadente e armata di falcioni e zagaglie, quasi indistinguibile dalla canaglia che infestava il sobborgo. Non era una guardia cittadina bensì una sbirraglia di mercenari, fedele solo agli interessi dei commercianti che sganciavano la mercede in cambio di protezione. Se le cose fossero filate lisce, Veltro non credeva avrebbe incontrato problemi sul quel fronte. Il barbiere chirurgo si spidocchiava la zazzera fuori dalla tenda vuota, e i barattieri starnazzavano in una babele di idiomi per finalizzare gli ultimi imbrogli della giornata. Restava il saloon, archetipo di ogni losca centralina di informazioni. Dagli schiamazzi che rimbalzavano dalla bettola si sarebbe detto che le meretrici la stessero regalando insieme a un'ughia di canapa. Le narici del Veltro furono pugnalate da un'orgia di effluvi che combinava l'acredine di sbornie rigurgitate al dolciastro delle spezie e del fumo. L'interno era vasto e distribuito su un piano, il pavimento cosparso di trucioli. Un enorme focolare e una mescita di porcherie, insieme a filari di panche grezze e sgabelli scrausi, corredavano il quadro. Gli avventori erano troppo presi dal gioco, dalla baldoria o dalle sguaiate cameriere per curarsi dell'ennesimo, polveroso vagabondo. Veltro soppesò le obbligatorie consumazioni. Un cuciniere grondante sudore arrostiva alla brace schidioni di costole carbonizzate. Veltro non aveva visto topi né polli razzolare nei vicoli di Tananai. Nel dubbio, optò per i beveraggi. L'ostessa, una virago cadente dai baffi più folti dei suoi, gli grugnì: "Carichi o scarichi?" D’acchito restò interdetto. Poi colse l'ammiccare lascivo di una serva popputa di ritorno dalla corvè, e arguì. Ordinò un boccale di sidro a una tariffa iniqua, e si unì ad un tavolo di mercanti alticci equidistante dall'uscio e dalla vetriata senza scuri che dava in strada. Da lì Veltro poteva tenere d'occhio la situazione.

                                                   Le ore passavano sulla cipolla, assottigliando la speranza di intercettare il suo bersaglio. Tananai non andava mai a letto, e come una sorgente inquinata riforniva il saloon di continua marogna. La pasta dei clienti era pittoresca quanto infida. Un viavai di cercatori e tombaroli d'ogni schiatta, dalle biffe ora malsoddisfatte ora esaltate. bucanieri paludati nelle pelli maleodoranti delle fiere predate. Nomadi in sosta sulla via di rotte segrete. Veltro rilevò nella calca sempre più odiosa le vesti neropurpuree e trapunte di rune dei sussiegosi negromanti, una casta comprensibilmente rispettata in Tanatholia. Veltro non credeva nella veggenza o nella stregoneria, ma non era così ottuso da sottovalutarla. Da quando era sbarcato a Port Tijaratur Veltro aveva captato impressioni e percezioni estranee al senso comune, e sperimentato situazioni che difficilmente si inzuccavano con la logica. Le sue riflessioni furono distratte dal passaggio di una sorta di fachiro, pitturato di ocra bianca a emulazione di uno scheletro, con una figura incappucciata e recalcitrante alla catena. Molti avvinazzati accolsero la sua comparsa con ovazioni d'incoraggiamento. Il fachiro raggiunse il centro della sala, e agganciò la catena ad un'anella d'acciaio conficcata nel sabbione. Il brusio scemò. Ottenuto il suo pubblico, il guitto svelò con consumata teatralità la cosa sotto la coltre. Veltro sussultò, inorridito: quella era la morte incarnata. Un umanoide macilento e orripilante, dalla pelle cianotica e ulcerosa, prese ad artigliare furiosamente l'aria con le grinfie sudicie di terra, contraccambiato da risa e lazzi triviali. Le mascelle erano imbullonate in una musiera di sbarre retate, in modo che l'obbrobrio non potesse mordere, dalle quali fiottava una bava necrotica e un ringhio disumano. Gli occhi apatici, da squalo, riflettevano l'abisso nero del catafalco. Se c'era una cosa più morta di questa, Veltro stentava a immaginarsela. Eppure se ne stava là, in piedi, a dimenarsi e a digrignare il muso in scimmie piene d'odio demente. Una cameriera porse al fachiro un sitar di zucca e tek, e l'aedo cominciò a tentarne le numerose corde. Il bordone era lugubre, vibrante, incredibilmente suggestivo. L'essere incatenato si ammansì, tastando il vuoto quasi volesse catturare quelle note surreali e sfarfallanti. La sua ghigna bestiale si diluì nell'espressione di un demonio sotto sedativi, e con orribile voluttuosità il non-morto improvvisò una danza oscillante che mandò ai matti il becero auditorio. Ipnotizzato da quel vilipendio alla natura, per poco il Veltro non si perse l'ingresso di tre nuovi clienti: una coppia a braccetto, tallonata da una scorta non indifferente. Le tempie del Veltro presero a pulsare come tamburi di battaglia: un predatore ne fiutava d'istinto un altro. Mantera incedeva con un passo spavaldo e protervo, indizio di una sicumera basata sulla paura. Il cranio notevole era sgorbiato da una tonsura crestuta, che in sintonia al naso massacrato e alla bocca orlata di cicatrici consolidavano la sua aura criminale. Molti si scansarono dal suo cammino, e chi non lo faceva veniva estirpato con malgarbo dal gigantesco guerriero al seguito. Bastò una sua occhiata per convincere gli occupanti delle prime file a riconsiderare la loro sistemazione. Mantera si svaccò su una panca, accogliendo in grembo le forme ginniche e invitanti della compagna, inguainata in un corsetto a scacchi e un licenzioso shyntian lacerato in più punti. "Horla, c'è il tuo numero preferito!" sogghignò Mantera al colosso, che si accasciò su una sedia sbattendo sul tavolo lo spadone ricurvo e l'enorme giustapposto. Il barbaro indossava una pelliccia troppo ricca per essersela comprata. Doveva trattarsi del voltagabbana Yziaken, e lei invece era Racne, la puttana evasa dall'harem di Tiamat. Un peculiare disegno le adombrava il viso pallido, la stilizzazione di una tarantola che pareva sbucarle dal padiglione auricolare tatuato a ragnatela. Tutto tornava.  Veltro approfittò del bailamme per infilarsi il tirapugni chiodato e levare la sicura alla Knaak. Sentenza gli batteva la coscia nel fodero. Intanto Mantera riceveva il primo giro di boccali, ricompensando la cameriera sculettante con una manata nel deretano. Malgrado l'apparente celiare, il Veltro percepiva la tensione scorrere sotto i connotati del ladro come una vena vulcanica. Gli occhi di Mantera, di un blu torbido, scandagliavano vigili e irrequieti i dintorni, e nell'istante in cui incrociò i suoi Veltro temette irrazionalmente di essere stato scoperto. Racne finse una scenata di gelosia per il comportamento dell'amante, e ridendo oscenamente si spalmò la schiuma dell'idromele nella giunzione dei seni. Mantera vi infilò lubricamente la lingua, incurante di ogni pudore. Veltro valutò se ucciderli subito o aspettare che fossero usciti. In entrambi i casi, catturare vivo quel pezzo di merda sarebbe stata un'impresa degna della sua fama di cacciatore di taglie.

                                                                     Gli eventi decisero al suo posto. Tutti erano assorti nell'ignobile spettacolo dell'incantatore di ghoul,  e non si accorsero del drappello di cavalieri che a briglia sciolta risalivano il centro di Tananai. Dalla finestra il Veltro li osservò arrestarsi davanti al saloon, e man mano che volavano dalle selle sentì un groppo acido ostruirgli la gola. Guai in arrivo, ma non per forza. Un diversivo poteva tornargli utile, specie in frangenti come questo. Veltro si alzò e guadagnò a spallate alcuni metri verso Mantera, prima che sei incappucciati irrompessero dai battenti a valve. Sulle armature leggere vestivano incamiciate bianche contrassegnate da un tomoe scarlatto, e i cappucci erano buffamente conici, con due fori rozzi per gli occhi. Meno goliardiche erano le torce nere e spente che maneggiavano come lunghi randelli. Il fachiro stoppò la sua nenia. "Gli spiriti dei caduti possono raggiungerti ovunque, Mantera" tuonò pomposamente la testa del gruppo "Sei pronto ad affrontare il Giudizio?" Veltro imprecò sottovoce. Ci mancava solo questa. Mantera degnò la minacciosa truppaglia di un'occhiata di sufficienza, ma Veltro registrò che coperto da Racne aveva estratto qualcosa dallo stivale. "Quanta retorica, Okkultis.  Non è colpa mia se tuo fratello aveva un pessimo senso dell'orientamento!" Gli avventori ancora sobri se la squagliarono alla chetichella dietro le fantasmatiche figure. "Lo hai abbandonato nelle Desolazioni senz'armi né acqua, vile serpente. E' per questo che sei scomunicato. Avete udito tutti? Per questo ladro da ora è decaduto il Patto di Torcia! Le nostre torce nere renderanno giustizia agli ingannati!" Il Veltro drizzò le orecchie. La fortuna era davvero una banderuola. Il proclama indusse anche i curiosi più inguaribili a travasare dall'unica entrata. Restarono sparuti tavoli di ubriaconi disfatti, attaccabrighe navigati, il macabro teatrino, le cameriere e l'ostessa che strepitò: "Se dovete regolare i conti, fatelo fuori da qui o chiamerò i Tagliamani!" Horla picchiò le manone sul tavolaccio. "Mai una serata libera!" si lamentò. Impugnò l'enorme doppietta, che scartò bofonchiando: "Ah già, voi del Clan non usate meccanismi". Il ponderoso spadone balenò nel suo pugno, leggero come una bacchetta. "Come vuoi, Mantera" sibilò sprezzante Okkultis, facendo segno ai suoi di attaccare.

                                                      Tutto avvenne sveltissimamente. Con sbalorditiva agilità il barbaro scattò verso il primo incappucciato affettandolo come un'aringa. Il secondo lo colpì al torace con la mazza cilindrica, che si schiantò in due monconi. "Madornale errore" sindacò l'Yziaken, calando a due mani la lama sul poveraccio. Intanto Okkultis si era scagliato in direzione di Mantera, che ribaltando la panca a mò di barriera gli strisciò la spalla con il coltello da lancio. "Un pò di chassè?" propose Racne brandendo un khopesh e recidendo la catena del ghoul. Libero dai vincoli e dalla malia del sitar, l'essere ruggì di rauco trionfo avventandosi su una cameriera. Fu il caos. E nel caos chi sa ciò che vuole lo ottiene. Come un'unica entità Mantera e Racne tagliarono la pista, rovesciando sgabelli e abbattendo chiunque e qualunque, lei con la scure falcata e lui con una coppia di costolieri. il cuoco si ritrovò con le proprie frattaglie tra le mani, forse la carne migliore delle sue ricette. Intanto il ghoul scavava nei seni di una villana urlante tentando inutilmente di azzannarle la gola, mentre il fachiro più bianco del suo trucco vagolava alla ricerca di un improbabile aiuto. Lo spadone di Horla, da solo, impegnava contemporaneamente tre vendicatori, uno dei quali vistosamente ferito. Mantera e Racne scavalcarono l'ultimo ostacolo e frantumarono i vetri del finestrone, tuffandosi nel vicolo. Racne sembrava divertirsi un mondo. Okkultis li incalzava, intralciato da una turba di cameriere e ubriachi in disarmo che bastonò a casaccio. La virago mantenne la promessa e soffiò a pieni polmoni in un fischietto di corno dal timbro acutissimo. Il segnale diede la molla al Veltro. aggirò destramente l'area del combattimento, evitando le suppellettili ribaltate e il trapestio di corpi indistinti. Passò accanto alla cameriera riversa al suolo, realizzando distrattamente che era spacciata e che l'orrore cadaverico stava per ghermire il suo tremante negriero. Un guercio dalla dentiera d'oro gli sbarrò il passo puntandogli uno spiede al costato. "Diamo un'occhiata a cosa tieni lì sotto, bellezza!" baccagliò agguantandogli il mantello. Veltro finse di mollarlo, e con l'avambraccio nascosto fece scattare la daga estensibile traforandogli la giugulare. La iena che lo spalleggiava vide tutto e deviò senza colpo ferire. Veltro andò oltre, scorgendo il lembo della tunica di Okkultis sparire nel rettangolo nero dell'invetriata rotta. Il Veltro zompò nella viuzza e proseguì tenacemente la caccia.

                                                               Gli bastò seguire i cadaveri. All'incrocio successivo, in una pozzanghera di sangue neonato, il capo della masnada aveva smesso di giocare all'inquisizione. Al centro del cappuccio luccicava il manico di uno dei pugnali di Mantera. Mancava poco all'aurora, le strade di Tananai erano spopolate. I bazar avevano chiuso da poco o stavano per aprire, e il pandemonio al saloon polarizzava i manipoli di vigilanti e i nottambuli. Veltro sudò freddo per un istante, temendo di aver perso le tracce dei fuggitivi. Poi udì una serie di grida, accompagnate da rumori di lotta, scaturire dalle vicine scuderie. Il Veltro piombò sulla scena, silenzioso come un gufo. Uno dei gemelli era addossato a una staccionata, già stecchito. L’altro stava per soccombere a Racne, che lo strangolava con un laccio arcuando la schiena come una contorsionista. "Dai, amore, dimmi che sono brava" gli ansimava accaldata come una cagna prossima all'orgasmo. Sfilando tra le ombre, Veltro puntò all'asso di denari. A giudicare dai nitriti, Mantera stava esportando dalle stalle i quadrupedi con cui tagliare la corda. "Ehi, piccola! Uno rosso per il condannato, e uno nero per la sua prefica!" ironizzava il ladro. Del colosso che stava rischiando la pelle per loro non sembrava infischiarsene granché. "Cosa ne ..." Il Veltro gli apparì dal nulla e gli rilasciò un montante col tirapugni, centrandolo al mento. Mantera si afflosciò come un sacco di stoppie. Il grosso era quasi fatto. Ma il quasi è la cerniera che separa il trionfo dal fallimento. Una morsa avvinse il braccio del Veltro, che fu proiettato all'indietro sulla ghiaia.  Studiò come in un incubo il cappio del lazo, e la parabola discendente del khopesh che fischiava per decapitarlo. Il filo lunato accettò la sabbia in uno strillo d'erinni. Il Veltro rotolò a lato e con prontezza schizzò all'attacco snudando Sentenza. Il duello non cominciò neanche. La striscia penetrò l'ossessa  all'altezza del diaframma, passandola da parte a parte. Nonostante i prodromi della morte, Veltro constatò l’incontestabile bellezza di quel volto. Il Veltro avvitò la spada per allargare lo squarcio ed estrasse brutalmente la lama. Racne crollò in avanti, imbattendosi nella terra che da lì a sempre l'avrebbe ospitata. Veltro nettò e rinfoderò Sentenza. Lo sguardo sorvegliava la sagoma inerme di Mantera, più immobile di un thanatolite. L'aria arida della notte profumava di ritiro anticipato. Veltro adottò con calma le sue precauzioni. Somministrò un paio di calci alle palle di Mantera, che protestò nel deliquio, e gli pestò la nuca con lo stivale rispedendolo in fondo al pozzo dell'incoscienza. Poi gli annodò i polsi con del cordame, e le caviglie in una cinghia di cuoio. Lo trascinò per la collottola nel ciarpame fino al recinto del dromwar, dove liberò il suo varano dalla segregazione. Canticchiando, Veltro issò la taglia sul dorso gibboso del bestione e fece per togliere il disturbo. Il gemello superstite si reggeva le ecchimosi, sbuffando come un mantice forato. Veltro si arrestò sull'onda di un'illuminazione improvvisa. Si chinò sulla salma prona di Racne, e col temperino gli resecò l'orecchio tatuato. "Un souvenir per un'amica" si giustificò imboscandolo nel mantello. Lo stalliere lo contemplava, affralito e sconcertato, ed il Veltro ebbe un altro guizzo di genio. Era la sua serata di grazia. Accanto alle greppie individuò una gabbia metallica saldata al pianale di un  carretto, usato per il trasporto di bestiame vivo. L'ideale per il suo scopo. Il proprietario non si oppose mentre il Veltro lo assicurava al dromwar, remissivo al basto come alla sella. Scrollò Mantera come un tappeto, poi calciò al gemello sopravvissuto la sua bisaccia tintinnante.  "Tienila per il disturbo. Ah, Viva la morte …". Il dromwar risalì il centro di Tananai con il nuovo carico e la stessa andatura plantigrada. Veltro massaggiava il calcio del suo catenaccio. Svoltato l'angolo, una voce cavernosa gli intimò: "Dove pensi di andare, sacco di merda?" Horla era piantato in mezzo alla via, l'artiglieria alzata contro di lui. L'altro braccio gli penzolava slogato al fianco, ed il sangue degli incappucciati lo inzaccherava fino al bavero. La vera epitome del guerriero all'inferno. Veltro non perse tempo a persuaderlo che la sua lealtà era sprecata per un codardo come Mantera, ma gli sparò due colpi in pieno petto. Il barbaro non si mosse, quasi i suoi muscoli fossero di gomma. Horla tirò i grilletti del giustapposto: "Hai finito i colpi. Madornale errore". La knaak gli aprì un occhiello gocciolante tra gli occhi. Si vede che non hai mai viaggiato, lo commiserò il Veltro guardandolo spirare. Le ruote del carro ripartirono, facendone scempio. Restava un ultimo scoglio da superare. All'esterno del saloon si ammassava una ressa di scimitarre sguainate e capannelli di curiosi e testimoni. Veltro intravide anche il socio dal muso sorcino dell'aggressore sgozzato. Decine di sguardi diffidenti lo indussero al contrattacco. "Questo ladro non gode più dell'impunità di Torcia!" improvvisò indicando Mantera in gabbia "E' un traditore e un assassino. Su mandato di Tiamat Aurotene, ho l'incarico di condurlo a Port Tijaratur per consegnarlo all'autorità" Poi ficcò le cartucce nella rivoltella facendo ticchettare il tamburo. "Se qualcuno intende opporsi, si faccia avanti" Le lingue dei presenti furono le sole cose addormentate a Tananai quella notte.          
 
 
 
 
 
 
 

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