SPIRAGLI DI BUIO
Universo di Crypt Marauders Chronicles
3. CACCIATORI E PREDE
Le Piste Calpeste serpeggiavano sotto un cielo di rame tra panorami di
stregata desolazione. Recavano le impronte di migliaia di calzari, di zoccoli e
il solco dei rimorchi di incalcolabili spedizioni. Le sabbie ciottolose
dell'Ordog, anticamera al Deserto del Ceneri, arrugginivano sotto la muta
vedetta di ciclopici menhir ed i moloc di megalitici ruderi diroccati dai
millenni. Il fascino scabro delle solitudini desertiche si coniugava a
un’impalpabile aura di alienità sovrannaturale, il dimenticatoio ideale per chi
intende nascondersi o sparire per sempre dall'orbe civile. Grauser aveva
fissato per il Veltro un abboccamento con una spia di Tiamat, senza la quale la
caccia sarebbe risultata a dir poco improba. Le zampe artigliate del dromwar
tennero la caldeggiata via maestra fino al tramonto, quando quel polveroso
monumento all'effimero fu popolato da una mandria di tenebre antracite. Pareva
che a pascerle fosse l'hadramaut, il richiamo dei morti, l'arido vento
dell'entroterra thanatolico. Sibilava tra i promontori di sabbia e macerie col
suo gelo d'ossario, scolpendo le dune come un'entità senziente. Il sole annegò
a vista d'occhio oltre la dorsale del bassopiano, e il fuoco di un vicino
bivacco riscaldò la mente già suggestionata del viaggiatore. Il quadrupede
draconico familiarizzò con un suo consimile, allungando il collo grinzoso, nel
ridotto di un marabutto in rovina che i tombaroli usavano come xenodochio. Una
figura solinga si riparava tra una bica di detriti e una colonna franta,
ingarbugliata in uno strato di vesti frugali. "Appena in tempo!"
commentò senza alcun stupore alla comparsa del Veltro "Non è saggio
marciare tra le ombre, se sei un vivente..." Skrotos era un ramingo poco
loquace, dall'indole pellegrina, legato da un antico e imprecisato debito
all'organizzazione di Aurotene. Acuto e smaliziato, conosceva le asperità
dell'Ordog come un custode le tombe di un cimitero. Il duca ideale per il
Veltro. Cavalcarono ininterrottamente per due giorni fino al Passo delle Ossa
Scintillanti. I mattini erano canicolari e siccitosi come le uadi pietrificate
che talvolta sottolineavano le piste, le sere un freddo sussurro di misteri
dimenticati ma non per questo estinti. Man mano che si addentravano in
Thanatolia, le regole astronomiche davano l'idea di ammutinarsi. Il sole
collassava a velocità irragionevoli, come per effetto di un numero di
prestigio, e i firmamenti erano arcate di uno zodiaco illogico e sconosciuto
che sabotava l'orientamento. La terza notte si accamparono in un boschetto di
saguari alle pendici del basso Tormenghast. La brace del bivacco a queste
longitudini sembrava scaldare poco e illuminare ancor meno. Una cosa ululava
nell'oscurità, un urlo lamentoso, agghiacciante, di un bambino sperduto.
"Uno sciacallo?" domandò il Veltro, prevedendo un'altra veglia
insonne. Skrotos si sbottonò: "Improbabile. Forse uno scorpione mannaro o
una mummia derubata. Magari un abominio ancora peggiore ..." Veltro
adocchiò i pinnacoli dirupati che davano il nome al Passo poco lontano. Splendevano
di un'arcana iridescenza cerulea, che inspiegabilmente non rischiarava la
notte, simili a torri falcate o alle zampe di un ragno ribaltato. "Solo
uno squilibrato si avventurerebbe tra quelle solitudini" borbottò Veltro
tra se. Skrotos intercettò il suo pensiero: "Dove tu vedi un insensato
abbandono altri hanno visto e vedranno la vanagloria dell'argento, del potere,
della sapienza e, perché no!, della morte fine a se stessa. Forse non la più
nobile delle cause, ma la più naturale. In fondo anche tu sei qui per qualcosa
..." "Io sono qui per
lavoro" L'informatore approvò. "Io il mio l'ho finito. Domani supera
il Passo e percorri le Piste tenendo i monti alle spalle. Tananai ti accoglierà
a fauci aperte ... Non vedrai mai un
covo di malaffare peggiore di quello. E' lì che oggi si annidano Mantera e la
sua feccia di esiliati, agli antipodi dell'impero occulto di Tiamat!"
"Tu non mi accompagni?" "No, il mio debito termina qui. E poi,
se devo crepare, non mi va di avere Mantera per boia. Quell'uomo è uno
scarafaggio col cervello di un demonio, matto come un cavallo" Per nulla
rassicurato, Veltro svolse il primo quarto di sentinella. L'ululato cresceva e
sfiatava. Dove, arduo decifrarlo. Qualcosa di indeterminabile e sinuoso
tramestò tra le xerofite, ma non osò venire alla luce, forse intimidito
dall'acciaio o dai feticci d'antimonio che Skrotos apprestava attorno al
bivacco per scongiurare il malocchio. Nell'ora del lupo, falò ignoti
barbagliarono dai picchi preistorici, come in risposta a invisibili segnali
celesti All'alba Veltro si rialzò più stanco di quando si era coricato. Skrotos
e il suo dromwar se l'erano svignata. Il beduino aveva disposto la partenza
nell'illusione che l'orecchio onnisciente di Veltro ne fosse all'oscuro, ma lui
lo aveva assecondato volentieri. Detestava gli addii. Skrotos gli aveva
lasciato un'agra colazione e alcune delle sculturine apotropaiche. Veltro
consumò lo spuntino con mani intirizzite, assistendo all'arrancare dei frusti
raggi del sole dai cocuzzoli preumani. La riacquistata solitudine lo metteva
stranamente di buon umore. Era così che amava lavorare, quando la preda si
profilava all'orizzonte.
Il deserto imbruniva come una padella bruciacchiata, quando Veltro avvistò
i fuochi di Tananai. Era un caotico accampamento privo di mura, soverchiato da
un'acropoli cadente di sfingi decapitate e mozziconi di propilei sconsacrati,
saccheggiati da anni di ogni ricchezza. Il tenore degli edifici, affastellati senza alcun criterio
urbanistico, oscillava tra baracche di assi rozzamente squadrate a veri e
propri padiglioni sorretti da travi infisse nel suolo sabbioso. Veltro
parcheggiò il dromwar in un enorme recinto suddiviso per specie - gli equini e
i camelidi non soffrivano i sauri -, gestito da due gemelli dal collo taurino
che indicarono al Veltro le migliori armerie e il saloon. Le prime erano in
realtà spacci di ogni classe di merci per avventurieri, dai sacchetti di
polvere nera agli amuleti negromantici, passando per le immancabili vanghe da
necropoli. Per i terreni sassosi gli esperti suggerivano quelle a lama trapezoidale,
col manico in ferro. Veltro finse di mercanteggiare per un kit di scalpelli da
cripta e una lanterna schermata, giusto per sondare i paraggi senza alzare
troppo il profilo. Le strade sterrate erano un crocevia di ceffi discretamente
spaventevoli, marmagliume più aduso al delitto che alla legalità, combinato in
maniere tali da dissuadere possibili molestie.
Veltro notò la presenza di una Shurta dalle brigantine di cuoio scadente
e armata di falcioni e zagaglie, quasi indistinguibile dalla canaglia che
infestava il sobborgo. Non era una guardia cittadina bensì una sbirraglia di
mercenari, fedele solo agli interessi dei commercianti che sganciavano la
mercede in cambio di protezione. Se le cose fossero filate lisce, Veltro non
credeva avrebbe incontrato problemi sul quel fronte. Il barbiere chirurgo si
spidocchiava la zazzera fuori dalla tenda vuota, e i barattieri starnazzavano
in una babele di idiomi per finalizzare gli ultimi imbrogli della giornata. Restava
il saloon, archetipo di ogni losca centralina di informazioni. Dagli schiamazzi
che rimbalzavano dalla bettola si sarebbe detto che le meretrici la stessero
regalando insieme a un'ughia di canapa. Le narici del Veltro furono pugnalate
da un'orgia di effluvi che combinava l'acredine di sbornie rigurgitate al dolciastro
delle spezie e del fumo. L'interno era vasto e distribuito su un piano, il pavimento
cosparso di trucioli. Un enorme focolare e una mescita di porcherie, insieme a
filari di panche grezze e sgabelli scrausi, corredavano il quadro. Gli
avventori erano troppo presi dal gioco, dalla baldoria o dalle sguaiate
cameriere per curarsi dell'ennesimo, polveroso vagabondo. Veltro soppesò le obbligatorie
consumazioni. Un cuciniere grondante sudore arrostiva alla brace schidioni di
costole carbonizzate. Veltro non aveva visto topi né polli razzolare nei vicoli
di Tananai. Nel dubbio, optò per i beveraggi. L'ostessa, una virago cadente dai
baffi più folti dei suoi, gli grugnì: "Carichi o scarichi?" D’acchito
restò interdetto. Poi colse l'ammiccare lascivo di una serva popputa di ritorno
dalla corvè, e arguì. Ordinò un boccale di sidro a una tariffa iniqua, e si unì
ad un tavolo di mercanti alticci equidistante dall'uscio e dalla vetriata senza
scuri che dava in strada. Da lì Veltro poteva tenere d'occhio la situazione.
Le ore passavano sulla cipolla, assottigliando la speranza di intercettare
il suo bersaglio. Tananai non andava mai a letto, e come una sorgente inquinata
riforniva il saloon di continua marogna. La pasta dei clienti era pittoresca
quanto infida. Un viavai di cercatori e tombaroli d'ogni schiatta, dalle biffe
ora malsoddisfatte ora esaltate. bucanieri paludati nelle pelli maleodoranti delle
fiere predate. Nomadi in sosta sulla via di rotte segrete. Veltro rilevò nella
calca sempre più odiosa le vesti neropurpuree e trapunte di rune dei sussiegosi
negromanti, una casta comprensibilmente rispettata in Tanatholia. Veltro non
credeva nella veggenza o nella stregoneria, ma non era così ottuso da
sottovalutarla. Da quando era sbarcato a Port Tijaratur Veltro aveva captato
impressioni e percezioni estranee al senso comune, e sperimentato situazioni
che difficilmente si inzuccavano con la logica. Le sue riflessioni furono
distratte dal passaggio di una sorta di fachiro, pitturato di ocra bianca a
emulazione di uno scheletro, con una figura incappucciata e recalcitrante alla
catena. Molti avvinazzati accolsero la sua comparsa con ovazioni d'incoraggiamento.
Il fachiro raggiunse il centro della sala, e agganciò la catena ad un'anella d'acciaio
conficcata nel sabbione. Il brusio scemò. Ottenuto il suo pubblico, il guitto
svelò con consumata teatralità la cosa sotto la coltre. Veltro sussultò,
inorridito: quella era la morte incarnata. Un umanoide macilento e orripilante,
dalla pelle cianotica e ulcerosa, prese ad artigliare furiosamente l'aria con
le grinfie sudicie di terra, contraccambiato da risa e lazzi triviali. Le
mascelle erano imbullonate in una musiera di sbarre retate, in modo che l'obbrobrio
non potesse mordere, dalle quali fiottava una bava necrotica e un ringhio
disumano. Gli occhi apatici, da squalo, riflettevano l'abisso nero del
catafalco. Se c'era una cosa più morta di questa, Veltro stentava a
immaginarsela. Eppure se ne stava là, in piedi, a dimenarsi e a digrignare il
muso in scimmie piene d'odio demente. Una cameriera porse al fachiro un sitar
di zucca e tek, e l'aedo cominciò a tentarne le numerose corde. Il bordone era
lugubre, vibrante, incredibilmente suggestivo. L'essere incatenato si ammansì,
tastando il vuoto quasi volesse catturare quelle note surreali e sfarfallanti.
La sua ghigna bestiale si diluì nell'espressione di un demonio sotto sedativi,
e con orribile voluttuosità il non-morto improvvisò una danza oscillante che
mandò ai matti il becero auditorio. Ipnotizzato da quel vilipendio alla natura,
per poco il Veltro non si perse l'ingresso di tre nuovi clienti: una coppia a
braccetto, tallonata da una scorta non indifferente. Le tempie del Veltro
presero a pulsare come tamburi di battaglia: un predatore ne fiutava d'istinto
un altro. Mantera incedeva con un passo spavaldo e protervo, indizio di una
sicumera basata sulla paura. Il cranio notevole era sgorbiato da una tonsura
crestuta, che in sintonia al naso massacrato e alla bocca orlata di cicatrici
consolidavano la sua aura criminale. Molti si scansarono dal suo cammino, e chi
non lo faceva veniva estirpato con malgarbo dal gigantesco guerriero al
seguito. Bastò una sua occhiata per convincere gli occupanti delle prime file a
riconsiderare la loro sistemazione. Mantera si svaccò su una panca, accogliendo
in grembo le forme ginniche e invitanti della compagna, inguainata in un
corsetto a scacchi e un licenzioso shyntian lacerato in più punti. "Horla,
c'è il tuo numero preferito!" sogghignò Mantera al colosso, che si
accasciò su una sedia sbattendo sul tavolo lo spadone ricurvo e l'enorme
giustapposto. Il barbaro indossava una pelliccia troppo ricca per essersela
comprata. Doveva trattarsi del voltagabbana Yziaken, e lei invece era Racne, la
puttana evasa dall'harem di Tiamat. Un peculiare disegno le adombrava il viso
pallido, la stilizzazione di una tarantola che pareva sbucarle dal padiglione auricolare
tatuato a ragnatela. Tutto tornava.
Veltro approfittò del bailamme per infilarsi il tirapugni chiodato e
levare la sicura alla Knaak. Sentenza gli batteva la coscia nel fodero. Intanto
Mantera riceveva il primo giro di boccali, ricompensando la cameriera
sculettante con una manata nel deretano. Malgrado l'apparente celiare, il
Veltro percepiva la tensione scorrere sotto i connotati del ladro come una vena
vulcanica. Gli occhi di Mantera, di un blu torbido, scandagliavano vigili e
irrequieti i dintorni, e nell'istante in cui incrociò i suoi Veltro temette
irrazionalmente di essere stato scoperto. Racne finse una scenata di gelosia
per il comportamento dell'amante, e ridendo oscenamente si spalmò la schiuma
dell'idromele nella giunzione dei seni. Mantera vi infilò lubricamente la lingua,
incurante di ogni pudore. Veltro valutò se ucciderli subito o aspettare che
fossero usciti. In entrambi i casi, catturare vivo quel pezzo di merda sarebbe
stata un'impresa degna della sua fama di cacciatore di taglie.
Gli eventi decisero al suo posto.
Tutti erano assorti nell'ignobile spettacolo dell'incantatore di ghoul, e non si accorsero del drappello di cavalieri
che a briglia sciolta risalivano il centro di Tananai. Dalla finestra il Veltro
li osservò arrestarsi davanti al saloon, e man mano che volavano dalle selle
sentì un groppo acido ostruirgli la gola. Guai in arrivo, ma non per forza. Un
diversivo poteva tornargli utile, specie in frangenti come questo. Veltro si
alzò e guadagnò a spallate alcuni metri verso Mantera, prima che sei
incappucciati irrompessero dai battenti a valve. Sulle armature leggere
vestivano incamiciate bianche contrassegnate da un tomoe scarlatto, e i
cappucci erano buffamente conici, con due fori rozzi per gli occhi. Meno
goliardiche erano le torce nere e spente che maneggiavano come lunghi randelli.
Il fachiro stoppò la sua nenia. "Gli spiriti dei caduti possono
raggiungerti ovunque, Mantera" tuonò pomposamente la testa del gruppo
"Sei pronto ad affrontare il Giudizio?" Veltro imprecò sottovoce. Ci
mancava solo questa. Mantera degnò la minacciosa truppaglia di un'occhiata di
sufficienza, ma Veltro registrò che coperto da Racne aveva estratto qualcosa
dallo stivale. "Quanta retorica, Okkultis.
Non è colpa mia se tuo fratello aveva un pessimo senso
dell'orientamento!" Gli avventori ancora sobri se la squagliarono alla
chetichella dietro le fantasmatiche figure. "Lo hai abbandonato nelle Desolazioni
senz'armi né acqua, vile serpente. E' per questo che sei scomunicato. Avete
udito tutti? Per questo ladro da ora è decaduto il Patto di Torcia! Le nostre
torce nere renderanno giustizia agli ingannati!" Il Veltro drizzò le orecchie.
La fortuna era davvero una banderuola. Il proclama indusse anche i curiosi più
inguaribili a travasare dall'unica entrata. Restarono sparuti tavoli di
ubriaconi disfatti, attaccabrighe navigati, il macabro teatrino, le cameriere e
l'ostessa che strepitò: "Se dovete regolare i conti, fatelo fuori da qui o
chiamerò i Tagliamani!" Horla picchiò le manone sul tavolaccio. "Mai
una serata libera!" si lamentò. Impugnò l'enorme doppietta, che scartò
bofonchiando: "Ah già, voi del Clan non usate meccanismi". Il
ponderoso spadone balenò nel suo pugno, leggero come una bacchetta. "Come
vuoi, Mantera" sibilò sprezzante Okkultis, facendo segno ai suoi di
attaccare.
Tutto avvenne sveltissimamente. Con sbalorditiva agilità il barbaro
scattò verso il primo incappucciato affettandolo come un'aringa. Il secondo lo
colpì al torace con la mazza cilindrica, che si schiantò in due monconi.
"Madornale errore" sindacò l'Yziaken, calando a due mani la lama sul poveraccio.
Intanto Okkultis si era scagliato in direzione di Mantera, che ribaltando la
panca a mò di barriera gli strisciò la spalla con il coltello da lancio.
"Un pò di chassè?" propose Racne brandendo un khopesh e recidendo la
catena del ghoul. Libero dai vincoli e dalla malia del sitar, l'essere ruggì di
rauco trionfo avventandosi su una cameriera. Fu il caos. E nel caos chi sa ciò
che vuole lo ottiene. Come un'unica entità Mantera e Racne tagliarono la pista,
rovesciando sgabelli e abbattendo chiunque e qualunque, lei con la scure
falcata e lui con una coppia di costolieri. il cuoco si ritrovò con le proprie
frattaglie tra le mani, forse la carne migliore delle sue ricette. Intanto il
ghoul scavava nei seni di una villana urlante tentando inutilmente di
azzannarle la gola, mentre il fachiro più bianco del suo trucco vagolava alla
ricerca di un improbabile aiuto. Lo spadone di Horla, da solo, impegnava
contemporaneamente tre vendicatori, uno dei quali vistosamente ferito. Mantera
e Racne scavalcarono l'ultimo ostacolo e frantumarono i vetri del finestrone,
tuffandosi nel vicolo. Racne sembrava divertirsi un mondo. Okkultis li incalzava,
intralciato da una turba di cameriere e ubriachi in disarmo che bastonò a
casaccio. La virago mantenne la promessa e soffiò a pieni polmoni in un
fischietto di corno dal timbro acutissimo. Il segnale diede la molla al Veltro.
aggirò destramente l'area del combattimento, evitando le suppellettili
ribaltate e il trapestio di corpi indistinti. Passò accanto alla cameriera
riversa al suolo, realizzando distrattamente che era spacciata e che l'orrore
cadaverico stava per ghermire il suo tremante negriero. Un guercio dalla
dentiera d'oro gli sbarrò il passo puntandogli uno spiede al costato.
"Diamo un'occhiata a cosa tieni lì sotto, bellezza!" baccagliò
agguantandogli il mantello. Veltro finse di mollarlo, e con l'avambraccio
nascosto fece scattare la daga estensibile traforandogli la giugulare. La iena
che lo spalleggiava vide tutto e deviò senza colpo ferire. Veltro andò oltre,
scorgendo il lembo della tunica di Okkultis sparire nel rettangolo nero
dell'invetriata rotta. Il Veltro zompò nella viuzza e proseguì tenacemente la
caccia.
Gli bastò seguire i cadaveri. All'incrocio successivo, in una
pozzanghera di sangue neonato, il capo della masnada aveva smesso di giocare
all'inquisizione. Al centro del cappuccio luccicava il manico di uno dei
pugnali di Mantera. Mancava poco all'aurora, le strade di Tananai erano
spopolate. I bazar avevano chiuso da poco o stavano per aprire, e il pandemonio
al saloon polarizzava i manipoli di vigilanti e i nottambuli. Veltro sudò
freddo per un istante, temendo di aver perso le tracce dei fuggitivi. Poi udì
una serie di grida, accompagnate da rumori di lotta, scaturire dalle vicine
scuderie. Il Veltro piombò sulla scena, silenzioso come un gufo. Uno dei gemelli
era addossato a una staccionata, già stecchito. L’altro stava per soccombere a
Racne, che lo strangolava con un laccio arcuando la schiena come una
contorsionista. "Dai, amore, dimmi che sono brava" gli ansimava
accaldata come una cagna prossima all'orgasmo. Sfilando tra le ombre, Veltro
puntò all'asso di denari. A giudicare dai nitriti, Mantera stava esportando
dalle stalle i quadrupedi con cui tagliare la corda. "Ehi, piccola! Uno
rosso per il condannato, e uno nero per la sua prefica!" ironizzava il ladro.
Del colosso che stava rischiando la pelle per loro non sembrava infischiarsene
granché. "Cosa ne ..." Il Veltro gli apparì dal nulla e gli rilasciò
un montante col tirapugni, centrandolo al mento. Mantera si afflosciò come un sacco
di stoppie. Il grosso era quasi fatto. Ma il quasi è la cerniera che separa il
trionfo dal fallimento. Una morsa avvinse il braccio del Veltro, che fu
proiettato all'indietro sulla ghiaia. Studiò
come in un incubo il cappio del lazo, e la parabola discendente del khopesh che
fischiava per decapitarlo. Il filo lunato accettò la sabbia in uno strillo d'erinni.
Il Veltro rotolò a lato e con prontezza schizzò all'attacco snudando Sentenza.
Il duello non cominciò neanche. La striscia penetrò l'ossessa all'altezza del diaframma, passandola da
parte a parte. Nonostante i prodromi della morte, Veltro constatò
l’incontestabile bellezza di quel volto. Il Veltro avvitò la spada per
allargare lo squarcio ed estrasse brutalmente la lama. Racne crollò in avanti,
imbattendosi nella terra che da lì a sempre l'avrebbe ospitata. Veltro nettò e
rinfoderò Sentenza. Lo sguardo sorvegliava la sagoma inerme di Mantera, più
immobile di un thanatolite. L'aria arida della notte profumava di ritiro
anticipato. Veltro adottò con calma le sue precauzioni. Somministrò un paio di
calci alle palle di Mantera, che protestò nel deliquio, e gli pestò la nuca con
lo stivale rispedendolo in fondo al pozzo dell'incoscienza. Poi gli annodò i
polsi con del cordame, e le caviglie in una cinghia di cuoio. Lo trascinò per
la collottola nel ciarpame fino al recinto del dromwar, dove liberò il suo
varano dalla segregazione. Canticchiando, Veltro issò la taglia sul dorso
gibboso del bestione e fece per togliere il disturbo. Il gemello superstite si reggeva
le ecchimosi, sbuffando come un mantice forato. Veltro si arrestò sull'onda di
un'illuminazione improvvisa. Si chinò sulla salma prona di Racne, e col
temperino gli resecò l'orecchio tatuato. "Un souvenir per un'amica"
si giustificò imboscandolo nel mantello. Lo stalliere lo contemplava, affralito
e sconcertato, ed il Veltro ebbe un altro guizzo di genio. Era la sua serata di
grazia. Accanto alle greppie individuò una gabbia metallica saldata al pianale
di un carretto, usato per il trasporto
di bestiame vivo. L'ideale per il suo scopo. Il proprietario non si oppose
mentre il Veltro lo assicurava al dromwar, remissivo al basto come alla sella.
Scrollò Mantera come un tappeto, poi calciò al gemello sopravvissuto la sua
bisaccia tintinnante. "Tienila per
il disturbo. Ah, Viva la morte …". Il dromwar risalì il centro di Tananai
con il nuovo carico e la stessa andatura plantigrada. Veltro massaggiava il
calcio del suo catenaccio. Svoltato l'angolo, una voce cavernosa gli intimò:
"Dove pensi di andare, sacco di merda?" Horla era piantato in mezzo
alla via, l'artiglieria alzata contro di lui. L'altro braccio gli penzolava
slogato al fianco, ed il sangue degli incappucciati lo inzaccherava fino al
bavero. La vera epitome del guerriero all'inferno. Veltro non perse tempo a
persuaderlo che la sua lealtà era sprecata per un codardo come Mantera, ma gli
sparò due colpi in pieno petto. Il barbaro non si mosse, quasi i suoi muscoli
fossero di gomma. Horla tirò i grilletti del giustapposto: "Hai finito i
colpi. Madornale errore". La knaak gli aprì un occhiello gocciolante tra
gli occhi. Si vede che non hai mai
viaggiato, lo commiserò il Veltro guardandolo spirare. Le ruote del carro
ripartirono, facendone scempio. Restava un ultimo scoglio da superare. All'esterno
del saloon si ammassava una ressa di scimitarre sguainate e capannelli di
curiosi e testimoni. Veltro intravide anche il socio dal muso sorcino
dell'aggressore sgozzato. Decine di sguardi diffidenti lo indussero al
contrattacco. "Questo ladro non gode più dell'impunità di Torcia!"
improvvisò indicando Mantera in gabbia "E' un traditore e un assassino. Su
mandato di Tiamat Aurotene, ho l'incarico di condurlo a Port Tijaratur per
consegnarlo all'autorità" Poi ficcò le cartucce nella rivoltella facendo
ticchettare il tamburo. "Se qualcuno intende opporsi, si faccia
avanti" Le lingue dei presenti furono le sole cose addormentate a Tananai
quella notte.
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